La Procura di Torino....

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carrarobastardo

La Procura di Torino....

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Spedisce il pallone su un albero, in uno di quei giardini ultrarecintati. Anziché provare a recuperarlo, salta sulla bici e va a farsi un giro. Dopo un bel pezzo torna al campo, scopre che gli altri hanno ripreso la partita e pretende di farsi ridare il pallone. Chiunque abbia giocato a calcio per strada, un ragazzino così l’ha incontrato almeno una volta. Forse anche i pm di Napoli che hanno scoperchiato il pentolone di Calciopoli. E ora rischiano di vedersi scippare l’inchiesta dai colleghi torinesi. Quelli che avevano già archiviato tutto quanto e in gran fretta. Nei panni del furbetto in bicicletta si sta calando proprio la Procura di Torino.

Tra il 30 giugno e la fine di settembre del 2004, i magistrati guidati da Marcello Maddalena hanno ascoltato le telefonate di molti personaggi del mondo Juve, Luciano Moggi compreso. E quando il gip ha negato la prosecuzione delle intercettazioni, si sono arresi senza prendersela. Anzi, hanno messo nero su bianco in una quarantina di pagine che «non c’è uno straccio di notizia». Emergeva, sì, una inelegante contiguità tra i vertici bianconeri e il designatore arbitrale Pierluigi Pairetto, «ma non sono emersi riscontri all’ipotesi investigativa di frode sportiva, bensì piuttosto elementi di prova di segno contrario». Ora, dopo aver visto il lavoro della magistratura napoletana e il clamore che ne è seguito, a Torino ci hanno ripensato. E un gip che di cognome fa Chinaglia, come il centravanti di sfondamento della Lazio anni Settanta, ha concesso alla Procura di riaprire l’inchiesta. Presto toccherà alla Cassazione stabilire la competenza tra Napoli e Torino.

Ma se i pm piemontesi tornano in campo, chi ci guadagna? E soprattutto, avevano insabbiato? Lunedì 5 giugno Pier Giorgio Gosso, capo dei gip torinesi, ha affrontato la questione con parole dure: «La riapertura dell’inchiesta servirà senz’altro a fugare i dubbi sul fatto che a Torino si sia deciso di archiviare per coprire o aiutare qualcuno». Quel “qualcuno” ha la “Q” maiuscola e indica la Fiat, la Juve, la famiglia Agnelli. Alle toghe torinesi storicamente il coraggio non è mai mancato. Oggi si storce il naso di fronte al caso di Maurizio Laudi, il procuratore aggiunto che per anni ha guidato anche la giustizia calcistica. Ma proprio Laudi, insieme ai vari Violante, Caselli, Maddalena, Saluzzo e tanti altri, è stato in prima linea nella lotta al terrorismo e ai clan dei catanesi saliti in Piemonte.

Giancarlo Caselli, procuratore generale a Torino, con “L’espresso” usa immagini forti: «Se io, che sono del Torino, o Laudi, tifoso della Juve, avessimo mai provato a interferire sulle inchieste che riguardavano le nostre squadre del cuore, colleghi come Maddalena o Guariniello (il pm del doping Juve, ndr) ci avrebbero fatto volare per le scale». E Maddalena è andato oltre, tirando in ballo la Fiat e Mani pulite. Ecco, forse per capire come funziona la giustizia a Torino bisogna voltarsi un attimo. «I magistrati di questa Procura sono gli unici che abbiano chiesto e ottenuto la condanna di Cesare Romiti per falso in bilancio», ha ricordato Maddalena. Verissimo, ma Romiti gli ha subito risposto che nelle indagini «vi furono diverse anomalie». E ne ha voluto ricordare almeno una: «Non sono mai stati sentiti, neppure come persone informate dei fatti, né Gianni Agnelli né suo fratello Umberto». In realtà, la vera sorpresa fu la condanna di Romiti.

L’allora amministratore delegato della Fiat fu convinto dai suoi legali ad affrontare il rito abbreviato di fronte a un giudice che in Corso Marconi stimavano molto, Francesco Saluzzo. Romiti credeva di essere assolto, invece il 9 aprile del 1997 si beccò una condanna a un anno e mezzo di reclusione. Nel corso degli anni, grazie alle nuove leggi sul falso in bilancio, la condanna si è prima ridotta in appello e poi è stata annullata dalla Cassazione. E Saluzzo? Per qualche mese il suo nome fu sulla bocca di tutti. Un eroe. Poi entrò nel cono d’ombra fino al 2001, quando venne accusato dal collega Bruno Tinti di fare la talpa per la Telecom di Roberto Colaninno. Un’accusa basata su telefonate trascritte in modo equivoco, e dalla quale Saluzzo è uscito con una piena assoluzione nel 2002. Due anni dopo, la maledizione telefonica ha colpito Tinti, accusato di aver fatto sapere a un cugino avvocato che un suo cliente era sotto inchiesta. Alla fine, i colleghi milanesi hanno accertato che i comportamenti di Tinti non avevano rilevanza penale e nel dicembre del 2004 il Csm ha archiviato un procedimento per incompatibilità ambientale, limitandosi a definire la condotta del pm torinese «disinvolta e inopportuna».

Proprio a Tinti, altro “aggiunto” di Maddalena e tifosissimo della Juve, è toccato risollevare l’immagine della Procura in queste settimane di sospetti. All’alba del 18 maggio, ha spedito una cinquantina di finanzieri nella sede della Juve e in varie abitazioni di “Lucianone” e di alcuni giocatori, facendo requisire migliaia di carte. Tinti indaga su plusvalenze, cosmesi di bilancio e fondi neri. Il bello è che l’inchiesta andava avanti da un anno e mezzo nel più rigoroso silenzio. Forse sonnecchiava in attesa di tempi migliori. Di sicuro, anche sul fronte delle perquisizioni non è stata rapida come quella che la scorsa estate fece sparire il Torino di Franco Cimminelli in meno di un mese. Scomparso il vecchio sodalizio granata, ripartito da zero in B con un’altra proprietà, delle inchieste penali su Cimminelli si è persa ogni traccia. Anche perché il suo gruppo industriale, che in modo imprudente controllava direttamente la società calcistica, è un fornitore-chiave della nuova Punto. Giustizia rapida e chirurgica, come raramente accade in Italia.

Il colmo, quanto a vicende pallonare, fu toccato a metà degli anni Novanta, quando il Torino era di Gianmauro Borsano. Ai pm torinesi ammise di aver incassato in nero e con pagamenti estero su estero i miliardi della vendita di Gigi Lentini al Milan e di Dino Baggio alla Juve. Borsano, Silvio Berlusconi e Adriano Galliani vennero condannati. Ai dirigenti bianconeri invece non arrivò neanche un avviso di garanzia. Per Baggio, insomma, è come se quel mago della finanza di Borsano avesse fatto tutto da solo.

Ma forse nessun’altra vicenda illustra le potenzialità del “rito sabaudo” come la fulminea inchiesta sulla disavventura di Lapo Elkann. Il nipote di Gianni Agnelli viene trovato in fin di vita per overdose la mattina del 10 ottobre 2005, nella casa di un transessuale. In un primo tempo il caso sembra affidato a Marcello Tatangelo, esperto magistrato della direzione distrettuale antimafia, che era il pm di turno. Nel giro di poche ore, però, si ritrova “affiancato” da Laudi, che ha la delega per la criminalità organizzata. Insomma, Laudi è il capo di Tatangelo, ma a nessuno viene in mente che Tatangelo era semplicemente di turno. Competenze e gerarchie non c’entrerebbero. Che Laudi sia piombato sull’inchiesta si potrebbe spiegare solo se dietro a quella droga acquistata dal giovane rampollo Fiat ci fosse un giro internazionale di spaccio gestito da organizzazioni mafiose. Invece viene aperto un fascicolo senza indagati e senza indicare alcun reato. Neppure la cessione di stupefacenti o il favoreggiamento, come di solito accade in casi del genere. I tre transessuali con i quali Lapo aveva passato la notte vengono ascoltati come semplici persone informate dei fatti e sostengono che il manager s’era portato la droga da casa, come aveva fatto in altre occasioni e presentandosi con altri amici. Ma raccontano che l’ultima dose, quella che poteva costargli la vita, sarebbe stata comprata per strada a San Salvario da qualche extracomunitario. Altro che “coca-vip”.

Quando si riprende, Lapo conferma tutto in una deposizione di un’oretta scarsa e vola subito negli Usa a curarsi. Dei suoi misteriosi amici e del canale di rifornimento della droga non si è più saputo nulla. Ma il mondo della Juve è tornato in ballo per storie di droga il 10 maggio, quando per ordine della Procura di Asti è finito in manette l’ex calciatore bianconero Michele Padovano. L’ex centravanti è accusato di essere il finanziatore di un grosso traffico internazionale di stupefacenti che finiva in gran parte sul mercato della “Torino bene” e nelle tasche di alcune vecchie glorie juventine. Anche per la concomitanza con il Moggi-gate, sembrava un’inchiesta destinata a stare sulle pagine dei giornali per qualche giorno. Invece è bastato che tra i clienti di Padovano trapelasse il nome del mitico Gianluca Vialli, uno degli uomini con il quale Lapo Elkann sognava di sostituire la Triade Moggi-Giraudo-Bettega, perché anche questa vicenda perdesse interesse. Torino, capitale dell’understatement.
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_Partenopeo_Puro_
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V'cchiariell
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uhm...
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